Frammenti di letteratura...

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FedeCina
00venerdì 3 giugno 2005 20:05
Cari amici lettori,
vi capita mai di leggere un libro e di rimanere così colpiti da qualche passo, o frase, o parola, e di sottolinearla per averla a portata di mano e ritrovarla subito ogni qual volta vi venga in mente? A me si, praticamente i miei libri sono quasi tutti sottolineati...[SM=g27829]
Questo topic è rivolto a tutti coloro che vogliano condividere i loro frammenti più belli e/o significativi, ritagli di letteratura che, in qualche modo, li hanno emozionati o quantomeno hanno mosso qualcosa dentro di loro.

Inauguro il topic con due brani tratti dal capolavoro di Jack Kerouac "Sulla strada", in assoluto uno dei miei libri preferiti.

"Correvano insieme per le strade, assorbendo tutto in quella primitiva maniera che avevano, e che più tardi diventò tanto più triste e ricettiva e vuota. Ma allora danzavano lungo le strade leggeri come piume, e io arrancavo loro appresso come ho fatto tutta la mia vita con la gente che m'interessa, perchè per me l'unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni traverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno "Ooohhh!" "


"Mi svegliai che il sole si faceva rosso; e quello fu l'unico, chiaro momento della mia vita, il momento più strano di tutti, in cui non seppi chi ero...Mi trovavo lontano da casa, ossessionato e stanco del viaggio, in una misera camera d'albergo che non avevo mai vista, a sentire i sibili di vapore là fuori, e lo scricchiolare di vecchio legno della locanda, e dei passi al piano di sopra, e tutti quei suoni tristi; e guardavo l'alto soffitto pieno di crepe e davvero non seppi chi ero per circa quindici strani secondi. Non avevo paura; ero solo qualcun altro, un estraneo, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma."

[SM=g27822]
CorContritumQuasiCinis
00venerdì 3 giugno 2005 20:13
In Bocca al Lupo...

[SM=g27811]
FedeCina
00venerdì 3 giugno 2005 20:17
Crepi il lupo!
[SM=g27823]
CorContritumQuasiCinis
00venerdì 3 giugno 2005 20:38
Ripreso in mano oggi...dopo 2 anni!


"Gli occhi di Fridolin erravano cupidi dalle formose alle snelle, dalle delicate alle splendide e fiorenti; e poiché ognuna di quelle figure nude restava pur sempre un segreto e dalle mascherine nere grandi occhi si volgevano raggianti verso di lui come il più insolubile degli enigmi, l'ineffabile piacere della vista gli si trasformava in un quasi insopportabile tormento di desiderio."

da "DOPPIO SOGNO" di Arthur Schnitzler
mant(r)a
00sabato 4 giugno 2005 02:14
vorrei sempre farlo
ma c'è che in questa vita ho tanto rispetto per i libri, per la carta, non la voglio mai sporcare;
nella passata, credo, devo aver sottolineato un sacco

"I libri non si sporcano con la penna, l'ho imparato troppo tardi, e, soprattutto, non si macchino le parole di umana banalità. Non ti paia indelicato ........"

[Modificato da mant(r)a 04/06/2005 2.15]

CorContritumQuasiCinis
00sabato 4 giugno 2005 08:21
Re: certo...

Scritto da: mant(r)a 04/06/2005 2.14
vorrei sempre farlo
ma c'è che in questa vita ho tanto rispetto per i libri, per la carta, non la voglio mai sporcare;
nella passata, credo, devo aver sottolineato un sacco

"I libri non si sporcano con la penna, l'ho imparato troppo tardi, e, soprattutto, non si macchino le parole di umana banalità. Non ti paia indelicato ........"

[Modificato da mant(r)a 04/06/2005 2.15]




Mo mo 'ssegno! [SM=g27828]
mant(r)a
00sabato 4 giugno 2005 12:27
ma non su di un libro, eh! [SM=g27827]
lenzuola
00sabato 4 giugno 2005 12:30
Io sporco e risporco e ancora sporco.
CorContritumQuasiCinis
00sabato 4 giugno 2005 14:41
Lui li sporcava parecchio ...


E' la pagina di un testo appartenuto a Faber, attento e puntiglioso Agricoltore. Vi si parla di letame e come si vede è in assoluto disappunto con una parte del pezzo scritto dall'autore del testo. "Scemo! No!": me so ammazzato dal ridere...[SM=g27828] [SM=g27828]

... chè Lui si che ne sapeva di "letame"![SM=g27824]

[Modificato da CorContritumQuasiCinis 04/06/2005 14.49]

[Modificato da CorContritumQuasiCinis 04/06/2005 14.49]

Agrumica
00venerdì 10 giugno 2005 17:45
La morte felice - Camus
Lassu' il cielo cade da tutta la sua altezza col suo peso di sole e di colori. Ad occhi chiusi Catherine percepisce questa caduta lunga e profonda che la riporta in fondo a se stessa dove si muove lentamente l'animale che respira come un dio.

[Modificato da Agrumica 10/06/2005 17.45]

pescetrombetta
00venerdì 10 giugno 2005 19:31
Re: Lui li sporcava parecchio ...

Scritto da: CorContritumQuasiCinis 04/06/2005 14.41


E' la pagina di un testo appartenuto a Faber, attento e puntiglioso Agricoltore. Vi si parla di letame e come si vede è in assoluto disappunto con una parte del pezzo scritto dall'autore del testo. "Scemo! No!": me so ammazzato dal ridere...[SM=g27828] [SM=g27828]

... chè Lui si che ne sapeva di "letame"![SM=g27824]

[Modificato da CorContritumQuasiCinis 04/06/2005 14.49]

[Modificato da CorContritumQuasiCinis 04/06/2005 14.49]



E tu in virtù di quale grazia saresti im possesso del prezioso cimelio?
FedeCina
00sabato 11 giugno 2005 12:42
"Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare. Darsi tempo, stare seduti in una casa da tè a osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare."
FedeCina
00sabato 11 giugno 2005 12:44
Oooops...
Mi sono dimenticata di scrivere che il brano appena citato è tratto da "Un indovino mi disse"- Tiziano Terzani.

Peace!
[SM=g27838]
Zafar!
00sabato 23 luglio 2005 02:40
Anch’io! Anch’io sottolineo le frasi nei libri! E anch’io leggo Kerouac e un po’ mi riconcilia col mondo. Non resisto…vi scrivo un po’ di frasi che ho sottolineato…(la prima l’ho presa da “Sulla strada”, poi ce ne sono due da “Angeli di desolazione” e due da “I sotterranei”)…spero vi piacciano…

“E naturalmente adesso nessuno può venirci a dire che Dio non esiste.[…] Tutto va benissimo. Dio esiste, noi abbiamo la nozione del tempo. Tutto quanto è stato predicato dai greci in poi è sbagliato. Non ci si può arrivare con la geometria né con i sistemi geometrici del pensiero.E’ tutto questo.”

“Il suono del silenzio
E’ tutto l’insegnamento
Che avrai”

“-Viviamo per desiderare, così io desidererò, e scendendo balzelloni giù da quella montagna sapendo tutto a menadito oppure non sapendo nulla a menadito pieno di splendida ignoranza proteso verso altri luccichìi altrove-“

“…perché io sono Baudelaire e amo la mia amante negra e chino sul suo vente ascolto l’interiore brontolio”

“La sua piccola mano bruna si raccoglie nella mia, ha unghie più pallide della pelle, acciambellata e scalza mi tiene un piede fra le cosce a riscaldarselo, e parliamo, cominciamo la nostra storia d’amore dal livello più fondo dell’amore, e storie di rispetto e di vergogna. Perché la chiave del coraggio è la vergogna e i visi indistinti del treno che passa distinguono sulla pianura solo volti di vagabondi che velocemente escono di vista.”
CorContritumQuasiCinis
00venerdì 16 settembre 2005 10:55
Moravia

La ciociara

Ah, i bei tempi di quando andai sposa e lasciai il mio paese per venire a Roma. La sapete la canzone:
"Quando la ciociara si marita
a chi tocca lo spago e a chi la ciocia"
Ma io diedi tutto a mio marito, spago e ciocia, perché era mio marito e anche perché mi portava a Roma ed ero contenta di andarci e non sapevo che proprio a Roma mi aspettava la disgrazia.

badposture
00sabato 29 ottobre 2005 22:32
Non c’è niente che possa impedire ad un uomo di scrivere,tranne se stesso.
I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo.E più lo ostacolano,più forte diventa,come una massa d’acqua che preme contro una diga.
Charles Bukowski
pastronef
00sabato 29 ottobre 2005 22:50
Re:

Scritto da: Zafar! 23/07/2005 2.40

“…perché io sono Baudelaire e amo la mia amante negra e chino sul suo vente ascolto l’interiore brontolio”

“La sua piccola mano bruna si raccoglie nella mia, ha unghie più pallide della pelle, acciambellata e scalza mi tiene un piede fra le cosce a riscaldarselo, e parliamo, cominciamo la nostra storia d’amore dal livello più fondo dell’amore, e storie di rispetto e di vergogna. Perché la chiave del coraggio è la vergogna e i visi indistinti del treno che passa distinguono sulla pianura solo volti di vagabondi che velocemente escono di vista.”



uh, I Sotterranei. Kerouack e la sua amante Mardou... tanto tempo fa. me lo diede Tullabeg
CorContritumQuasiCinis
00lunedì 14 novembre 2005 16:55
Sciascia docet (repetita iuvant).

"... e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie:
gli uomini,
i mezz'uomini,
gli ominicchi,
i (con rispetto parlando) pigliainculo
e i quaquaraquà.
Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, che mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre."


Bellissimo!
ittidu
00lunedì 14 novembre 2005 17:35
Re: Sciascia docet (repetita iuvant).

Scritto da: CorContritumQuasiCinis 14/11/2005 16.55

"... e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie:
gli uomini,
i mezz'uomini,
gli ominicchi,
i (con rispetto parlando) pigliainculo
e i quaquaraquà.
Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, che mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre."


Bellissimo!


ci ripensavo proprio stamattina a queste frasi...
Agrumica
00mercoledì 16 novembre 2005 11:09
"Ho una specie di certezza...fisica. Sento che non ci sono momenti perfetti. Lo sento fin nelle gambe, quando cammino. Lo sento continuamente, perfino quando dormo. Non posso dimenticarlo. Non c'è mai stata una specie di rivelazione; non posso dire: a partire da tale giorno, dalla tale ora, la mia vita s'è trasformata. Ma ora mi sento sempre come se questo mi fosse stato rivelato bruscamente il giorno prima. Mi sento abbacinata, a disagio, non mi ci abituo."


Sartre - La nausea
lemiemanisudite2.
00giovedì 29 maggio 2008 12:43
Le ombre, amici e parenti

Joe Richard Lansdale


...e l’anima indignata fuggì con un gemito fra le ombre.
Virgilio, Eneide

Vennero da me per la prima volta una notte buia, diversi mesi fa, una notte senza neve e senza pioggia e senza freddo, ma una notte scura senza nuvole e con l’aria un bel po’ calda, una notte davvero umida, appiccicosa come un paio di mutande sporche. Mi svegliai e mi misi a sedere sul letto, e dalla finestra filtrava la debole luce che proveniva dal cortile. Mi voltai a guardare mia moglie, sdraiata accanto a me, con i capelli biondissimi che con quel chiarore sembravano d’argento. La guardai a lungo, poi mi alzai e andai in salotto. Il nostro cagnolino, che dormiva sempre vicino alla porta di casa, mi si avvicinò e mi annusò, e io mi chinai per fargli due carezze. Rimase lì a farsi coccolare per un minuto, poi cercò di nuovo la sua cuccia accanto alla porta e si sdraiò.
Alla fine spensi la luce esterna e uscii sulla veranda. In mutande. Nessuno poteva vedermi, non con tutti quegli alberi, e anche se qualcuno mi avesse visto non me ne fregava niente. Mi misi a sedere sulla sedia girevole e fissai la notte, e pensai al lavoro che non avevo e al fatto che mia moglie si era messa a parlare di divorzio, e che ai miei suoceri non piaceva che vivessimo insieme a loro, e pensai anche che ogni volta che facevo una cosa fallivo, e in modo drammatico. Mi sentivo strano, vuoto e perso.
Mentre osservavo la notte, il buio si lacerò e una parte di esso risalì fino alla veranda a passi pesanti, pieni di tutte le ombre del mondo.
Ero spaventato, ma non mi mossi. Non riuscivo a muovermi. L’ombra, che sembrava una forma umana ricoperta di catrame, arrancò pesantemente lungo la veranda e si piantò davanti a me, guardandomi dall’alto in basso. Quando alzai gli occhi, tremante, vidi che non c’era una faccia, ma solo oscurità densa come un budino di cioccolata. Si chinò verso di me e appoggiò delle cose a forma di mani sui lati della sedia e avvicinò al mio il suo volto senza faccia, mi alitò addosso: un respiro caldo e smorto che mi fece sentire male.
«Sei quasi uno di noi» disse, poi si voltò e si allontanò lentamente lungo la veranda e giù per i gradini, fino a scomparire fra le ombre. Il buio, compatto come un muro, si diradò e si divise, e assorbì il mio visitatore; poi le ombre frusciarono via in tutte le direzioni come pipistrelli allarmati. Sentii un suono, come uno scricchiolio di foglie secche in mezzo agli alberi.
Mio Dio, pensai. Ce n’erano a frotte.
Là fuori.
Che aspettavano.
Che vigilavano.
Ombre.
E una di loro mi aveva parlato.

Ricordo tutto questo mentre siedo nella poltrona e fuori infuria la tormenta, soffiando neve e facendo turbinare piccoli mulinelli d’acqua che poi si congelano uno dopo l’altro. Ricordo tutto questo mentre protendo di nuovo la mano per guardarla.
Le ombre fra le mie dita non sono più sbiadite.
Sono scure.
Hanno una relazione con la carne.
Sono me.

Chi sono le ombre?
Sono tutti coloro che sono come me.
Sono la congrega degli inutili. Quelli senza faccia. I falliti.
La gente vuota e triste che vaga per la vita e ti passa accanto e non riceve mai nemmeno un’occhiata; nullità come me, che vivono dentro la propria testa e immaginano di vincere alla lotteria e di avere successo con le ragazze e fiducia in sé stessi. E invece camminiamo a testa bassa, siamo calvi e arrabbiati, teniamo le mani in tasca, e non stringiamo soldi, ma le nostre palle flosce.
La vita vera è un affare faticoso.
Nessuno, se non un altro perdente come me, può capirlo.
A parte le ombre, perché sono quelli come me. Sono i perdenti e i perduti, e capiscono e non giudicano mai.
Sono fatti della mia stessa carne o, per essere più precisi, io sono fatto della loro stessa ombra. Mi accettano per quello che sono.
Sanno ciò che si deve fare e gradualmente me lo rivelano.
Le ombre
. Sono uno di loro.
Be’, quasi.

Mia moglie, i miei suoceri, ogni essere umano che si muove su questa terra, tutti mi sottovalutano.
Ci sono delle cose che so fare.
So fare i giochi al computer e so anche vincere. Ho creato i miei personaggi. Sono diversi dagli umani. Sono migliori degli umani. Sono il potenziale che c’è dentro di me e che non io sarò mai. Oh, so fare anche certe altre cose. Non ho citato tutte le cose che so fare bene. A dispetto di quello che la mia famiglia pensa di me. So fare un bel po’ di cose che loro non apprezzano, e invece dovrebbero.
So fare un ottimo frappè di latte e cioccolato.
Mia moglie lo sa e, volendo, potrebbe ammetterlo. Prima lo diceva. Adesso non più. Si è chiusa a me. Dall’interno. Dall’esterno.
Ha chiuso ogni portello. Dentro e fuori.
In basso. Nella sua piccola, bella navicella, quel portello è sigillato, chiuso a chiave.
Ma c’è un’altra cosa che so fare bene.
So usare un fucile.
Me l’ha insegnato mio padre, fra una sberla e l’altra. Era l’unico momento in cui stavamo bene insieme. Quando stringevamo un fucile fra le mani.

In cantina ho un baule.
Dentro il baule ci sono le armi da fuoco.
Un bel po’.
Fucili, doppiette, rivoltelle e pistole automatiche.
Le ho raccolte nel corso degli anni.
Uno dei fucili appartiene a mio suocero.
C’è anche una quantità di munizioni.
A volte, nel corso della giornata, se non riesco a dormire, quando mia moglie è al lavoro e i miei suoceri si godono la pensione giocando a golf, mi metto a sedere, pulisco le armi, le carico, poi le risistemo nel baule. Lo faccio con cura, lentamente, come i preliminari di un rapporto sessuale. E quando ho finito le mie mani puzzano di olio lubrificante. Me le strofino sulla faccia e sotto il naso, e l’olio ha un odore che somiglia un po’ a una specie di muschio.
Ma adesso, con il ghiaccio e il freddo e il buio, con noi congelati qui dentro e senza un posto in cui andare, le pulisco di notte. Non durante il giorno, quando loro non ci sono.
Le pulisco di notte.
Al buio.
Dopo essermi incontrato con le ombre.
I miei amici.
Tutti quelli scuri, radunati da ogni parte del mondo, passati e presenti. Radunati nel mio cortile – nel cortile dei miei suoceri – ad aspettarmi. Ad aspettare che diventi uno di loro, che mi unisca a loro.
L’unico circolo che mi abbia mai voluto.

Ce ne sono molte, di quelle ombre, e adesso so chi sono. Lo so dal giorno in cui ho preso il nastro isolante per idraulici e me ne sono servito per sigillare le porte della camera da letto di mia moglie e quella dei miei suoceri.
Il cane è con mia moglie.
Non riesco più a dormire nel nostro letto.
Mia moglie, come gli altri, ha cominciato a puzzare.
Il nastro tiene dentro un po’ della puzza.
Verso dell’acqua di colonia su tutto il tappeto.
Funziona.
Un po’.

Com’è successo. Ve lo riassumo.
Una notte sono uscito e mi sono messo a sedere, e le ombre sono venute sulla veranda così numerose che intorno a me e dentro di me c’era solo il buio, e io ero diciamo un po’ spaventato, ma in qualche modo felice, sprofondato in un grosso sacco nero, tenuto da mani che mi amavano.
Eppure, nello stesso tempo, ero libero.
Li sentivo che mi toccavano, che mi respiravano addosso. E seppi allora che era giunto il momento.

Giù in cantina aprii il baule e presi un’arma ben oliata, un fucile da caccia. Risalii su e feci tutto in modo rapido. Prima mia moglie. Non si svegliò mai. Sotto la sua testa, sul cuscino, alla luce della luna, si allargava un fiore del colore dell’olio lubrificante.
Mio suocero sentì lo sparo e lo incrociai davanti alla porta del bagno. Un colpo solo. Poi un altro per mia suocera che se ne stava seduta sul letto con la faccia nascosta nell’ombra… ma un’ombra diversa. Non una delle mie ombre amiche, ma un’ombra fatta semplicemente di assenza di luce, e non di assenza di essere.
Il cane mi morse.
Immagino che fosse per via del rumore.
Sparai anche al cane.
Non volevo che si sentisse solo.
Chi si sarebbe preso cura di lui?

Trascinai mio suocero fino a letto, vicino a sua moglie, e gli tirai su le coperte fino al mento. Anche mia moglie ha le coperte belle rimboccate a coprirle la faccia. Le ho messo vicino il cagnolino, Constance.
Quanto tempo era che non facevo più un’opera buona?
Non me lo ricordo.
Stranamente ripenso a mio suocero. Portava sempre il cappello. Gli sembrava strano che gli uomini non lo portassero più. Era cresciuto in un periodo, gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui gli uomini portavano il cappello.
Me lo aveva detto un sacco di volte.
Lui portava il cappello. Gli uomini portavano il cappello, e per lui era strano che non lo facessero più, e pensava che gli uomini senza cappello fossero mezzi uomini.
Allora mi guardava. Non avevo il cappello. Mi squadrava da cima a piedi. Ai suoi occhi non solo ero senza cappello, ero un mezzo uomo.
Mezzo uomo?
Che modo di dire.
Il vento ulula e la notte è luminosa e le ombre si agitano, e la luna offre loro un po’ di chiarore per danzare.
Sono molti e io sono uno, e sono quasi uno di loro.

Strano, ma durante la notte il ghiaccio ha cominciato a scivolare via e tutto il bianco se n’è andato, e l’aria, anche se pungente, non era tanto fredda, e le ombre si sono raccolte sul tappetino di benvenuto e adesso sono scivolate dentro come buste sospinte da sotto la porta. Si uniscono a me.
Mi consolano.
Pulisco le mie armi.

È notte fonda, o prima mattina, a seconda di come la si considera. Ma le armi sono bene oliate e non c’è più ghiaccio. Adesso la notte è chiara come la mia mente.
Porto il baule su per le scale e lo trascino lungo la veranda, fino al pick-up. È pesante, ma riesco a caricarlo sul pianale posteriore. Poi mi ricordo che in garage c’è un carrello. Il carrello di mio suocero.
«Questo fottuto carrello può trasportare tutto» diceva sempre. «Tutto.»
Prendo il carrello, lo carico, aggiungo qualche attrezzo che trovo in garage e parto.

Non ce l’ho fatta a entrare all’università.
Non sono riuscito a superare il test.
Dovrei essere in gamba.
Quando ero piccolo mia madre mi diceva che ero un genio.
C’erano stati dei test.
Ma sembrava che non riuscissi a portare a termine niente.
Non ho nemmeno finito il liceo. Alla fine ho strappato un diploma generico. Non ho avuto un gran voto nemmeno lì, ma sono passato. Per un pelo.
Che razza di genio sono?
Poi sono riuscito a iscrivermi all’università. Quattro anni dopo tutti gli altri.
Ma non ce l’ho fatta. Non riuscivo a tenere niente in testa. Rimaneva tutto intasato dentro, come se ci avessero cacciato a forza un kleenex.
Il mio insegnante di storia mi disse: «Figliolo, forse è il caso che tu prenda in considerazione l’idea di trovarti un lavoro.»

Guido lungo il campus. La mia mente è chiara come la notte. La torre dell’orologio si staglia nitida nell’oscurità, illuminata in cima e tutt’intorno. Un fallo gigante che prende a pugni la luna.

È facile arrivare fino alla torre e scaricare dal carrello il baule con le armi.
Mio suocero aveva ragione.
Questo carrello è straordinario.
E la mia testa è così chiara. Niente kleenex.
E le ombre, compatte e numerose, sono con me.

Mi tiro dietro il carrello, e con il piede di porco (uno dei tanti attrezzi del garage) infilato nella cintura punto verso la torre. Indosso una tuta da lavoro. Grigia. Una divisa da operaio. Per un po’ di tempo mi hanno assunto nella portineria del campus. Il mio tentativo di trovarmi un lavoro. Mi hanno licenziato perché leggevo nella guardiola.
Ma mi è rimasta la tuta.

L’atrio è aperto, ma gli ascensori sono chiusi.
Trascino il carrello su per le scale.
È una faticaccia, uno strattone per volta, ma le cinghie del carrello tengono fermo il baule e sento le armi che sbatacchiano dentro, quasi volessero uscire.
Quando arrivo in cima sudo come una fontana e mi sento fiacco. Non ho idea di quanto ci sia voluto, ma certo un bel po’ di tempo. Le ombre sono state con me, mi hanno incoraggiato. Grazie, dico loro.

La porta in cima alla torre dell’orologio è chiusa.
Tiro fuori il ferro del mestiere. Il piede di porco. Mi metto al lavoro.
È facile.
Oltrepassata la porta, appoggio il carrello dal basso contro la maniglia e la blocco. Ci vorrà un bel po’ per liberarla.

Dentro la torre c’è un’altra rampa di scale.
Devo trascinarmi dietro il baule con le armi.
Un lavoraccio. La cinghia che uso come maniglia si spezza e il baule precipita.
Lo riporto su.
Per poco penso di non farcela. Quel baule pesa un accidente. È pieno di fucili e pistole. E di tante belle munizioni.

Finalmente arrivo in cima, facendo forza con le spalle e con le gambe.
La porta sul terrazzino che gira tutt’intorno alla torre non è chiusa.
Mollo il baule, esco fuori e faccio tutto il giro, guardando giù le cose minuscole.
Fra un po’ giungerà la luce, e anche le persone.
Mi volto per dare un’occhiata alle gigantesche lancette dell’orologio. Le quattro.
Spero che il tempo non scivoli via. Non voglio ritrovarmi a casa accanto alla finestra, a guardare fuori.
Le ombre.
Svolazzano.
Si agitano.
Il terrazzino ne è pieno. Si accalcano, e sono tante quanti sono gli smarriti del mondo. Tante quanti sono i disperati del mondo. Tante, e fitte, sempre più fitte. E ancor più lo saranno quando mi unirò a loro.

A un angolo del terrazzino c’è un ottimo punto di osservazione. Dovrei cominciare da lì. Ci piazzo un fucile, quello che ho usato per mettere a dormire la famiglia e il cane.
Piazzo altri fucili tutt’intorno alla torre.
Probabilmente passerò da una postazione all’altra.
Le ombre mi danno dei suggerimenti.
Tutti buoni, naturalmente.
Mi infilo una pistola nella cintura.
Sistemo un fucile da caccia vicino all’ingresso del terrazzino, nascosto dietro l’angolo del muro, in una piccola sporgenza di mattoni ben disposti. Ci sta che è una bellezza.
Per tutta la lunghezza del terrazzino ci sono dei grossi vasi da fiori pieni di felci. Ci ficco dentro le pistole.
Quando ho finito torno a guardare l’orologio.
È passata un’ora.

Di nuovo a casa nella mia poltrona, a guardare fuori la notte che muore. Di nuovo a casa in poltrona, con l’odore della mia famiglia che sta diventando familiare come quello di una camicia portata da troppi giorni.
Come quello che ho addosso. Come il cappotto pesante che porto.
Guardo fuori dalla finestra e non è la finestra, ma la piccola feritoia nel muro del terrazzino. Ce ne sono per tutta la lunghezza.
Mi giro a guardare il posto che ho scelto e mi ritrovo a guardare dalla finestra di casa, e mentre guardo la finestra si fonde e così anche la casa.
L’odore.
Quello non se ne va insieme alla finestra e alla casa.
L’odore rimane con me.
Le ombre sono fin troppo vicine. Ne sono quasi soffocato. Respiro a fatica.

La luce esplode sulla sommità della torre e ricade giù sugli alberi del campus e corre lungo il terreno come miele caldo appena versato.
Mi rannicchio nel cappotto, lo stringo forte. Fa molto freddo. Quasi non mi sento le gambe.

Mi alzo e faccio due volte il giro del terrazzino, controllando tutte le armi.
Ben oliate. Ben cariche.
Tutte piene di annunci di piombo caldo.
Telegramma: sei morto.

Tornato alla mia postazione, quella da cui comincerò, vedo dei movimenti. Il giorno è iniziato. Infilo il fucile nella feritoia dentro il muro e inquadro un tizio alto che sta attraversando il campus. Potrei colpirlo facilmente.
Ma non lo faccio.
Aspetta, dicono le ombre. Aspetta che il piccolo mondo là sotto sia affollato.

Le lancette dell’orologio si muovono rumorosamente, producono lo stesso fracasso delle macchine che sento nella testa. Scricchiolano e sferragliano e si muovono.
L’aria si è fatta stranamente tiepida.
Sotto la giacca sento caldo.
Me la tolgo.
Sto sudando.
Il giorno è venuto, ma le ombre sono rimaste con me.
I veri amici sono così. Non ti abbandonano.
È bello avere dei veri amici.
È bello avere con me quelli che mi vogliono bene.
È bello non essere giudicati.
È bello sapere che so cosa fare e che lo sanno anche le ombre, e questo ci conforta tutti.

Il campus è vivo. Le persone scivolano lungo i marciapiedi di cemento come pesciolini in un canale.
Pesciolini dappertutto nei loro eleganti vestiti nuovi, pronti a sostenere i loro esami, a sostenere i loro scritti e a incontrarsi, in modo da potersi fare una bella scopata. Tutti con un futuro. Ma io sono la macchina che ruba il futuro.

Mi ricordo che una volta, quando ero bambino, andavo a pesca con le esche vive. Infilavo i pesciolini negli ami e li gettavo nell’acqua. Alla fine della giornata non avevo preso nulla. E avevo violato il codice del pescatore. Non rimettevo in acqua i pesciolini rimasti per dar loro la libertà. Li lasciavo a terra.
E li calpestavo.
Ero io ad avere il controllo.

Una bella ragazza, forse sui diciott’anni, alta quanto una modella, che cammina come se fosse un sogno, sta attraversando il campus. La luce le colpisce i capelli, che sembrano molto biondi, come quelli di mia moglie.
La inquadro nel mirino.
Le ombre si accalcano. Bisbigliano. Toccano. Mi mostrano i loro volti.
Adesso hanno dei volti.
Volti semplici.
Come il mio.
Faccio scorrere l’occhio per tutta la lunghezza della canna.
Senza che me ne renda davvero conto, il fucile emette un rumore secco nella luce del mattino. La ragazza cade a terra in un’esplosione di qualcosa che sembra marmellata di prugne.
I pesciolini si agitano. I pesciolini scappano.
Ma ce ne sono tanti, e sono tutti in preda al panico. Come se qualcuno li avesse gettati a terra a dimenarsi e a rantolare fuori dall’acqua.
Comincio a fare fuoco. Colpo dopo colpo dopo colpo.
Ogni sparo del fucile un rinculo sul ginocchio.
Vanno giù.
Calpestati.
Non porto il cappello, suocero mio, ma non sono affatto un mezzo uomo.

Il giorno avanza, sempre più caldo.
Chi l’avrebbe detto?
Mi sposto da un angolo all’altro della torre.
Ne ho fatti secchi un bel po’.
Sono arrivati gli sbirri.
Ho accoppato anche molti di loro.
Sento dei rumori nella torre.
Credo che siano riusciti a togliere di mezzo il carrello.
La porta del terrazzino si spalanca.
Una donna poliziotto si fa avanti. Il mio primo colpo la coglie alla gola. Ma quasi contemporaneamente spara anche lei. Con una rivoltella. Colpisce vicino a me, dove me ne sto accucciato contro il muro.
Un altro poliziotto entra dalla porta. Faccio fuoco e lo manco.
È la prima volta che fallisco un colpo.
Lui spara. Sento qualcosa di rovente che mi penetra nella spalla.
Mi accorgo che sto scivolando, con la schiena appoggiata al muro. Non riesco a tenere in mano il fucile. Cerco di prendere la pistola dalla cintura, ma non ce la faccio. Il braccio è inerte. L’altro, be’, nemmeno quello risponde. Il colpo mi ha lacerato qualcosa dentro. I fili che muovono le braccia. Questa marionetta non funziona più.
È spuntato un altro poliziotto. Ha un fucile a pompa. Si china su di me. Digrigna i denti e ha gli occhi umidi.
E proprio mentre spara le ombre mi dicono: «Adesso sì che sei uno di noi.»

Letto dall'autore al Festival delle letterature di Massenzio





EisKorakas
00mercoledì 24 settembre 2008 09:57
CHE TU SIA PER ME IL COLTELLO

[...]

«Voglio che tu sia per me il coltello, e anch'io lo sarò per te, prometto.

Per proteggerla da me, d'ora in avanti avrei dovuto semplicemente rimanere con lei, per sempre.

Ma con te non mi comporto in modo logico: solo in modo follemente logico. E non voglio nemmeno aspettare perché il tempo con te è diverso. E' circolare, e ogni momento si trova esattamente alla stessa distanza dal centro.

Non riesco a dormire.

Sto cercando un compagno per un viaggio immaginario (...) ho bisogno di un compagno reale per il mio viaggio immaginario.

Se è davvero cosi', se ti senti tra parentesi, permettimi allora di infilarmici dentro, e che tutto il mondo ne rimanga fuori, che sia solo l'esponente al di fuori della parentesi e che ci moltiplichi al suo interno.

Sei un tale enigma. Non è obbligatorio risolvero, dici tu, stai solo con me. OK, sono con te.

... La somiglianza che esiste tra noi ... la somiglianza che esiste tra due tazze rotte esattamente nello stesso punto ...

Concediti a me, lasciati andare, apri un po' i pugni dalle nocche bianche (...) e più ancora peccato che io non mi trovi vicino a te ogni mattina quando ti svegli, per scioglierti le dita e accarezzarti le nocche.

Vorremmo staccarci ma non ne siamo capaci, e negli occhi di entrambi si aprono altri schermi in profondità. Penso a come un attimo simile ricordi il momento della tragedia, dopo la quale niente sarà più come prima.

Mi dispiace, ho provato ad abituarmi a te, ci ho provato sul serio, ma non sono riuscita a superare i tuoi tumulti, i tuoi illusionismi.

Per un po' forse continuero' ad urlare il tuo nome a me stesso, nel cuore. Ma alla fine la ferita si cicatrizzerà.

Esisteremo solo per noi.

(...)

Perché è sveglia? Le donne perbene dormono a quest'ora, non si aggirano in piena notte tra la cucina e la veranda.

Provo qualcosa che non credevo esistesse: piacere e dolore a un tempo, proprio nello stesso punto.

Ho dimenticato la cosa più importante, giuro di proteggerti ocme un amico.

... Colori che, prima di conoscerti, non ero sicuro che esistessero.

A volte provochi in me dolori simili a quelli che si provano durante la crescita - nelle articolazioni dell'anima, pero'. E' una sensazione strana. In ogni tua lettera imparo su di te qualcosa di nuovo e d'inatteso, ma mi separo anche da qualcos'altro che pensavo e immaginavo di te. Certi giorni sento che sono ancora molto lontano dal conoscerti come vorrei.

Com'è che sai dare, e cosi' bene, ciò che non hai mai ricevuto?

Che è un peccato che tu e io non possiamo essere amici. Semplicemente amici. Un'amicizia sincera, come tra due uomini. Sul serio, perché non sei un uomo? Risolverebbe un sacco di problemi.

Il coraggio è assecondare i desideri della propria anima.

L'angoscia che tutto quello che c'è di buono in me non sarà mai dato a nessuno, e nessuno lo vorrà mai. Ma cosa c'è di buono in me?

Tra me e lei c'è un legame che non posso descrivere a parole. Perché non è nelle parole, è nel corpo, nel contatto, nelle sensazioni sottopelle ...

Senti, forse ti cerco già da anni, ti cerco disordinatamente, a casaccio, e continuo a brancolare. Capisco che ti sto cercando da molto tempo come uno che cerca una finestra in una stanza piena di fumo.

Se provi qualcosa per me, l'ombra di un sentimento, aiutami, non desistere. Ora, sii per me il coltello.
(...) Aiutami contro di me, ti prego.

Per un attimo tocchi il mio dolore a mani nude e io sento che ti è caro. Vuoi sinceramente che non lo viva da sola. E un attimo dopo fuggi il piu' lontano possibile ... Ti prego solo di non andartene, perché se te ne vai ora non farai più ritorno. Fuggirai oltre i confini del mondo e non vorrai ricordarti di quello che è iniziato qui, tra me e te, quando l'anima si apre così, lentamente e con dolore, verso un'altra persona.

C'è un punto in cui io e te cominciamo a parlare lingue diverse. E poi, cosa ne capisci, tu, di questa meraviglia, quando un perfetto sconosciuto all'improvviso si trasforma nel fulcro vivo di tutti i tuoi sentimenti, di tutti i tuoi pensieri e tutte le fantasie?

Non lo capisco. Non mi capisco con te. Era come avevi detto tu: nel punto in cui ti sono più vicino, sono anche più sfuggente che mai.

Cosa augurarti? A dire il vero, dovrei augurarti te stessa, perché tu sei il regalo più prezioso, più raro a cui possa pensare.

Svelare a una persona qualcosa che non sa di se stessa è un grande dono d'amore. Il più grande.

Vorrei poterti toccare, annusare il tuo sudore, osservarti mentre fai una cosa qualsiasi.

In nessun caso vorrei voltare le spalle a quello che c'è tra di noi. Sono disposta ad aspettare quanto occorre, quanto ti occorre. Perché "quello che c'è tra di noi" merita l'attesa.
(...) Non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori; ma forse, in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che abbia una ferita simile alla mia.

Ma io credo, con tutto il cuore, che ci sia un luogo, forse non il giardino dell'Eden, in cui potremo stare insieme. Un luogo che nella "realtà" non è più grande di una capocchia di spillo, per via delle inevitabili restrizioni; ma per noi sarà grande abbastanza, e lì potrai essere te stesso, chiunque tu sia. Solo di una cosa nonsono ancora sicura, ed è questo che mi frena: forse non sei in grado di credere che esista al mondo un luogo in cui tu possa essere te stesso, e sentirti amato. (Perchè, se è così, non crederai mai che qualcuno possa amarti).

All'inizio ci siamo toccati come se fossimo degli estranei. Poi ci siamo toccati come ci hanno insegnato a farlo. Solo alla fine abbiamo osato toccarci come facciamo noi due.

Com'è possibile essere liberi senza essere crudeli?

Tu sei l'unico a cui voglio dare quello che risvegli in me.

Cerco anche di non pensare a te. Ma tu, naturalmente, sei sempre più veloce di me.

Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso.

Non ho posto nella tua vita. Avrei già dovuto rassegnarmi. E se anche tu lo volessi, non oseresti trovarmi un posto libero nella tua "realtà".
(...) Nascondi a lei il mondo della tua immaginazione e a me quello della tua realtà. (...) E qual è il luogo in cui vivi veramente, una vita completa?

Come sei entrato nella mia vita? Com'è possibile che fossi cosi' indifesa? E non sei nemmeno entrato da una finestra o da un lucernaio. Sei riuscito a trovare una fessura attraverso la quale mi hai trafitto il cuore.

Dimmi, quante volte al giorno provi una fitta di dolore pensando: non le scrivero' mai questa cosa. Non conoscerà mai questo momento?

Lui mi aspetterà, senza timori e senza angosce, finché saro' in grado di parlargli. Capisci? Non esiste l'obbligo di raccontarci sempre tutto e non sentiamo il bisogno di aggiornarci sull'intensità dei nostri sentimenti. (...) Stai pensando che se lui non mi si scaglia addosso per esaminarmi e scoprire perché tutto d'un tratto mi sono rinchiusa in me stessa, e per chi lo faccio, molto probabilmente è perchè non mi ama abbastanza. Ma per me questo è amore.

E con quello sguardo mi chiedi ancora: chi sei? Non so, vorrei essere chiunque il tuo sguardo vede in me. Sì, se solo non avrai paura di vedere - forse sarò.

Mi stringerai ancora più forte e mi bacerai con tutta l'anima, come se, così facendo, riversassi in me tutto quello che è racchiuso e celato in te, che si aprirà e si svelerà nel mio corpo, piano piano, finché tutto si scioglierà.

Vedo un uomo che non è un uomo e un bambino che non è un bambino. Vedo un uomo la cui maturità e la cui virilità sono come una cicatrice che si è chiusa e indurita sulla ferita del bambino. (...) Lettera dopo lettera sentivo che avrei potuto fare qualcosa per te; e non era un caso che tu ti fossi rivolto a me, perché grazie al tuo intuito avevi capito che io avrei potuto guarire quella cicatrice, fino a rivelare il bambino, il tuo gemello luminoso e, ricominciando da lui, avresti potuto tornare ad essere l'uomo che sei, che eri destinato ad essere. Chi è quest'uomo? Temo che non mi permetterai più di scoprirlo. Posso solo indovinare che è tutto quanto insieme: adulto e bambino, uomo e donna, morto e vivo, e molte altre cose e molte altre persone - ma riuniti insieme, senza le divisioni artificiali e violente che esistono dentro di te. Perché ai miei occhi, nel punto in cui tutte quelle "anime" si toccano, si mescolano e si uniscono senza che nulla le separi, sento che laggiu' si trova il tuo vero io. Quando ti ho incontrato laggiù mi sono subito sentita riempire da te. Il mio corpo e la mia anima ti hanno parlato direttamente, oltre le tue parole, che non sempre amavo. Perché laggiù tu mi ecciti veramente, mi stimoli, mi infiammi e mi fai male. E, quando, talvolta, mi hai permesso di stare laggiu' con te mi sono sentita viva come non mi era mai successo con nessuno. Con nessun uomo.»

[...]

da "Che tu sia per me il coltello", David Grossman

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Chi lo ha Letto?
IoAnnarella
00giovedì 2 ottobre 2008 13:32
VDBD - ViadelleBelleDonne

http://viadellebelledonne.wordpress.com/

Cercando Ciprì e Maresco, ho trovato questo blog letterario.
Tamara mi piace molto. I blog un pò meno. Però questo mi ha colpito, a partire dal titolo.

Questo è l'incipit di un racconto. Mi è saltato in faccia come uno spruzzo d'acqua all'improvviso

Quando comincia una storia? In genere dall’inizio. A volte, però, è la fine di una storia che ne fa cominciare un’altra. Così ci sono due categorie di storie, quelle che cominciano dall’inizio e quelle che cominciano dalla fine. Ci sono due categorie di donne, quelle che raccontano la loro storia e quelle che non la raccontano, poi ce n’è una terza, quelle che non la raccontano giusta.
Total Sharing
00giovedì 2 ottobre 2008 13:47
Re: VDBD - ViadelleBelleDonne
'ottomila euro da Orchidea - fiori per ogni idea' ahahahahhh
è una grande la signorina a colori... una che sa sognare.


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