in soccorso a carlo...
Il Militante diventa Volontario
Che fine ha fatto l’ "eroe comunista"
Simonetta Fiori
Mai requisitoria fu più impietosa. Il "militante comunista" come cifra del XX secolo, incarnazione estrema del suo attivismo e delle sue contraddizioni laceranti. Non più homo ideologicus, ma homo faber spinto dal delirio costruttivista del tempo nuovo. Un po’ ribelle e un po’ poliziotto, diviso tra Piazza e Caserma, a metà strada tra eroe e aguzzino. Voleva edificare un mondo più giusto e ne è stato completamente divorato, con esiti sideralmente lontani dal progetto originario. Figura doppia e tragica, oscilla continuamente tra "generosità storica e ferocia burocratica", tra "aspirazioni libertarie e spirito gregario", tra "emancipazione collettiva e umiliazione dell’individualità". Nato sulle ceneri della Grande Guerra, esaltato dall’Ottobre rosso, vissuto sotto i fascismi europei, il "soldato della rivoluzione" si nutre di violenza, la stessa che è il tratto genetico del Secolo Breve. E, insieme al Novecento, è condannato a inesorabile tramonto.
Pur vantando antecedenti letterari illustri — Koestler il più citato — il disperante ritratto del "comunista idealtipico" rivive di nuova originalità nell’ultimo e provocatorio saggio di Marco Revelli, intellettuale indiscutibilmente di sinistra, amato dal leader di Rifondazione comunista, studioso acuto delle trasformazioni sociali ed economiche dell’età contemporanea (Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi: da domani in libreria). All’autore non sfugge la carica dirompente delle sue tesi, che sicuramente susciteranno discussione tra i suoi amici. «È un messaggio che ho voluto lanciare alla sinistra. Il Novecento ci consegna un secolo devastato dalla furia costruttivista dell’homo faber, anche nella sua variante politica rappresentata dal militante comunista. L’ordine che ne è scaturito è molto distante da quell’utopia. Se ora vogliamo salvarci dall’orrore economico d’un mondo governato dal profitto, dobbiamo andare al di là del Novecento e delle sue lacerazioni. Trovo sbagliato e fin troppo facile cercare nel passato solo rassicurazioni; più doloroso scavare tra le pieghe dei nostri errori».
Lo studioso raccoglie la sfida di un’opera («pur criticabile nell’impostazione») come il Livre noir du communisme e va a scoperchiare lo "scandalo del comunismo novecentesco", il primo dei suoi peccati capitali, che consiste nella «normalità dell’azione repressiva», quel repertorio di carcere, deportazione, tortura, delazione, campi di concentramento, spie e aguzzini che ne accompagna l’esperienza storica. «Una realtà che nessuna revisione dei conti può occultare né ridimensionare. E che in termini crudi può essere espressa così: numerose generazioni di comunisti, in questo secolo, condussero la loro battaglia per un mondo e un’umanità radicalmente diversi, usando le armi degli altri. Le armi dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni. Per molti aspetti, peggio degli altri. Nella convinzione condivisa che la grandezza dei propri fini avrebbe comunque riscattato la durezza dei mezzi».
È in questa devastante contraddizione — tra i fini desiderati e i mezzi utilizzati, tra premesse ideali ed esiti reali — che annida la tragica ambivalenza del militante rivoluzionario. «La sua ineliminabile doppiezza». «L’io continuamente scisso tra principi giusti e risultati sbagliati». La sua antropologia è segnata dal rovesciamento di tutti i valori che il comunismo, una volta conquistato il potere, pratica con sistematicità. Il ribellismo trasformato in autoritarismo, lo spirito libertario mortificato in gregarismo. L’identità sovversiva e autonoma delle origini dissolta nella gestione del potere. Ed è in questo «drammatico solco tra finalità e mezzi» la grande differenza dal nazismo, segnato dalla «perfetta coincidenza tra ferocia dei mezzi e ferocia dei fini». Distanziandosi dal suo maestro Bobbio, che ieri su queste pagine in un’intervista a Giancarlo Bosetti tracciava una forte analogia tra i due totalitarismi, Revelli ne contesta anche la definizione di comunismo come utopia reazionaria: «Il comunismo non è né incidente di percorso né residuo di passato sopravvissuto nella modernità: è incarnazione tragica della stessa modernità, essendosi arreso ai mezzi materiali che il Novecento gli mette a disposizione. Questo è un secolo in cui la forza delle cose travolge la forza delle idee».
Il comunismo come strada inesorabilmente sbarrata: «non possiamo salvarne nulla e dobbiamo ripartire da zero». Andare «oltre il Novecento», come recita il titolo del saggio. Ma nel gettare in mare il militante rivoluzionario con il suo fardello di ambiguità, non c’è il rischio di liquidare quello straordinario patrimonio di energie, uomini e idealità che pure ha caratterizzato la storia dei comunisti italiani? Severa la risposta: «È indubbio che in Italia il Pci abbia rappresentato un grande progetto di educazione civile. Ma il risultato non è tra i più entusiasmanti: passività, atteggiamenti acritici, machiavellismo, in qualche caso cinismo. Molti dei valori originari sono stati bruciati nella grande macchina che mette al primo posto il potere politico».
Requiem dunque per il soldato della rivoluzione. Sostituito oggi da una figura ancora evanescente, fragile, «appena percepibile in filigrana sulla scena sociale». È il Volontario, nuovo attore della solidarietà e della ribellione, «distante sia dai furori ideologici che dalle meschinità burocratiche del potere». Non ha né un uniforme né una bandiera. Non è appunto un soldato. «È un civile, animato dal senso di responsabilità, capace di "fare" fuori dalle logiche del profitto». Ed è nel passaggio dall’»estenuata figura del militante» a quella ancora «vacillante» del Volontario che Revelli rintraccia una delle possibili «uscite di sicurezza» del Novecento. «Sono consapevole che l’operazione sia rischiosa. Assumere il volontario come riferimento per un nuovo inizio comporta una buona dose di iconoclastia. Significa rinunciare a molte tesi care alla vecchia sinistra. Un scommessa, dunque. Che oggi vale la pena tentare».
La Repubblica
27 gennaio 2001