L'attimo dopo - Massimo Gezzi - editore luca sossella

lemieparole
00venerdì 23 aprile 2010 11:05


E’ probabile che io sapessi, prima ancora di riceverlo, che, “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi , sarebbe stato un gran bel libro di poesia. Come è possibile che io somigli più a un fan che a un critico. In realtà sono un lettore incallito, appassionato e abbastanza scaltro (concedetemelo). Aggiungete che alcune delle poesie contenute nella raccolta le conoscevo per averle lette nel nono quaderno marcos y marcos . Altre più recenti come “mattoni” le ho ascoltate in una sera di inverno, a Milano, in una freddissima( che novità) Casa della poesia. Ne rimasi molto colpito e lo dissi a Massimo già allora. A quel punto restava solo da aspettare il libro.

Nel frattempo ho rivisto Gezzi una mattina prima di Natale mentre entrambi cercavamo di prendere un treno per casa, sfidando neve e ferrovie dello stato. Entrambi sorridenti nonostante tutto e sopravvissuti, pare.

E’ un libro completo “L’attimo dopo”, di rara intensità. Mi piace che non ci sia il “sussulto” immediato, non compaia così spesso il verso che ti strappi il “però”. Questo succede quando è tutto il libro ad essere una scossa costante, un accordo, andirivieni quasi perfetto fra la parola scritta e il sentire dell’autore. Sentire che diventa il nostro, usiamo i versi del poeta a nostro piacimento. Immaginiamo noi stessi, ricordiamo, riviviamo, ne prendiamo possesso. Questo quando accade? Soltanto quando leggiamo poesia alta, poesia ben scritta. Quando l’autore possiede la leggerezza dell’ispirazione immediata e l’equilibrio, la cura costante per ogni verso. Ogni parola.

Ci sono libri “da seduti” e libri “da in piedi”, il libro di Gezzi appartiene alla seconda categoria. Il tipo di libro con il quale te ne puoi andare dal salotto (per chi c’è l’ha) alla camera leggendo ad alta voce. Non è possibile farlo con tutti i libri, quando ci si riesce è una bella cosa però.

Non starò (non ne sono capace) a proporre paragoni. Non mi metterò a dire : Gezzi mi ricorda, Gezzi si ispira a. Certamente Gezzi ha i suoi modelli, e penso alla poesia italiana del novecento ma non solo. Nella sua scrittura sono riconoscibili letture e passioni verso (credo) la poesia americana contemporanea. E’ uno studioso, un attento critico e tutto questo è naturale componente della sua poetica. Per quel che ne so io, però, Gezzi scrive come Gezzi. Forse fra qualche anno qualcuno, parlando di un poeta giovane, dirà: mi ricordi Massimo Gezzi. Ma di questo non importa nulla né a Massimo né a me.

Vivamente consigliato.

Qui alcune poesie tratte dal libro:

Gelsi

Hai fatto questo semplice gesto con la mano:
l’hai sollevata fino al volto,
l’hai tesa verso il mio finestrino,
mentre guidavo: ho guardato,
e contro la luce caliginosa
della mattina li ho contati,
otto, otto gelsi a chioma aperta
come la coda di un pavone imbalsamato,
in processione lungo la linea
del nostro sguardo, così perfetti
che per un attimo ho scordato
orari coincidenze
e ho rallentato per capire
come mai di otto alberi in fila si possa dire
“guarda che belli!”, come hai detto,
se loro non decidono di esserlo e tutto
è un avvicendamento senza senso,
o se basta un movimento della mano
e un sorriso per fare di otto alberi
in riga un’illusione di riscatto.





Il seme del tiglio

Mentre aspettavo l’autobus guardavo
le ondate di semi dei tigli
piovere sull’asfalto dopo un volo
di pochi metri: non attecchiranno,
le ruote delle auto li schiacceranno
in polvere finissima che la terra
assorbirà, con le piogge di settembre.
Mi stupivo del loro ingegno, del piccolo
velivolo naturale che li sovrasta
e li accompagna, nella discesa verso un tempo
che non vedranno mai.
La sera rincasando in automobile
ho sentito qualcosa scivolarmi
dai capelli: e su un braccio mi è atterrato
uno di questi semi, con le ali
acciaccate e il peduncolo piegato.
Peccato che non fossi
un bisonte di prateria, o un’antilope
che a balzi attraversa le montagne:
in uno scatto della corsa avrei deposto
il seme annidato nel mio pelo
in terra fertile. Invece sono un uomo
di città, e a poco è servita
la sua breve traversata, se adesso
abbandono quel chicco sul terrazzo,
sperando in qualcosa di più utile
di me, in un vento.

Tuesday Wonderland

Settembre, si direbbe. O forse una mattina
di metà maggio: il treno, il paesaggio
assopito dell’Oberland, contro il fumo
pesante delle fabbriche, sullo sfondo -
era il solito percorso
da casa alla stazione, cinque minuti
(poco meno), prima di prendere la rampa
di scale mobili che ascende
al cielo grigioazzurro di Länggasse.
Una musica ripetitiva scardinava
la catena degli eventi: la signora
diretta al suo lavoro, come sempre,
il folle barbuto che aguzzava gli occhietti
sbirciando il contenuto delle tasche:
un giorno come tanti, probabilmente martedì.
Il treno rallentò, le porte si aprirono.
Le scale mobili ripresero a salire
al primo tocco di piede.
Le cose restarono tutte quel che erano
l’attimo precedente: la luce fu luce,
gli autobus autobus,
gli aceri gli stessi, con qualche foglia in più.
Eppure sembrava lo sapessero tutti,
mentre tranquilli aspettavano al semaforo
o carichi di spesa, a piedi o in bicicletta,
svoltavano un angolo, e non c’erano mai stati.

Mattoni

Se volessi un mattone dovresti prendere
un mattone, per rabberciare una muraglia
o per tappare una buca
in un pavimento a lisca di pesce.

Un mattone: un solido che vive dentro tre
dimensioni, pesa, al tatto sembra
ruvido o poroso, e lasciato ammucchiato
assieme ad altri per lungo tempo fa
da nido a millepiedi, ragni e forbicine.

Un mattone che esiste, che spaccato col martello
fa tac una volta sola, un suono bello,
di mattone, secco, preciso.

Un mattone conta più delle parole
che lo imitano appoggiandosi
una sopra l’altra.

Io con la poesia vorrei fare mattoni.



[ L’attimo dopo – Massimo Gezzi – Luca Dossella ed.]



@recensione di gianni montieri


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